THAT CLOUD NEVER LEFT

THAT CLOUD NEVER LEFT

In poco più di un’ora di durata, un’opera che dispiega una pluralità di temi e spunti di riflessione, di finezze tematiche e suggestioni antropologiche. Con un gran gusto e una maniacale cura del quadro compositivo e degli effetti sonori. In Concorso alla 55° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro.

Nuvole all'orizzonte

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È interessata soprattutto allo studio del suono e alle sue potenzialità espressive e narrative Yashasvini Raghunandan, giovane cineasta indiana al primo lungometraggio di finzione, in Concorso alla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro 2019. Residente ad Amsterdam come artista in sede presso la prestigiosa Rijksakademie van Beeldende Kunsten, ma laureata in Cinema a Bombay, la regista unisce in That Cloud Never Left le due sensibilità cinematografiche che ne hanno formato il gusto, la sperimentazione antropologico/documentaristica di matrice europea e il riutilizzo dei perduti materiali bollywoodiani in pura chiave semantica, simbolica, tra metatestualità e mise en abyme.

Raghunandan trova un piccolo villaggio, Daspara, nell’ovest dell’India, dove gli abitanti praticano e vivono principalmente di un’antica forma di artigianato, tutto rivolto al riutilizzo di materiali di scarto per la produzione di fantasiosi giocattoli sonori, dai vari usi e fogge. Vi si stabilisce per quasi un anno, si fa accettare e benvolere dalla comunità e poi, una volta entrata nei tempi e nei modi della vita di paese, prepara una sceneggiatura/canovaccio come traccia da seguire, pronta a lasciarsi sorprendere e “fuorviare” dalla quotidianità.

Ne esce fuori un’opera rapsodica, che si muove, come abbiamo già anticipato, intorno a precise coordinate sonore ancor prima che visive, rumori di utensili che incidono canne o pezzi di legno, di acqua che scorre, di (ed ecco la suggestione che più c’interessa in sede di analisi) un proiettore acceso e della pellicola che vi passa attraverso. Uno dei giocattoli prodotti dalla comunità, uno di quelli di cui vediamo la preparazione quasi nella sua interezza, in tutti i passaggi, una rudimentale girandola sulla quale vengono fissati singoli fotogrammi, produce un rumore molto simile, ed ecco che uno (non l’unico) dei perché dell’operazione si rende intellegibile: singoli fotogrammi, ormai macchie di colore graffiate, alcuni riproposti in un montaggio dagli echi quasi brackageani, vengono ricondotti a nuova vita in quanto singole monadi di una nuova esperienza, che porta quei frammenti nel futuro attraverso il passato, il ritorno alle origini, alle dita di un bambino che imprimono quel movimento circolare che il dispositivo meccanico, il proiettore appunto, ormai non può più dargli.

A tutto questo, che renderebbe That Cloud Never Left quasi uno studio semiotico in presa diretta, si aggiunge anche la matericità dei corpi che lavorano e degli spazi in cui il lavoro prende forma, delle credenze e delle abitudini della comunità, di un’eclisse lunare usata come pretesto, che fa da trait d’union narrativo e collante simbolico (abbastanza irrisolto, da questo punto di vista). I giochi dei bambini, le canoe che fendono le acque, gli uomini alla ricerca di rifiuti paragonati, per analogia, alla galline che becchettano sull’aia, ogni singolo frammento di questo (breve, poco più di un’ora di durata) lavoro aggiunge un piccolo tassello al quadro d’insieme, e se l’insieme deve molto allo strutturalismo lacaniano è per la sua intrinseca natura, difficile da cogliere nella sua interezza in maniera coerente e compatta.

La bravura della cineasta indiana nel posizionare la macchina da presa in maniera “discreta” e partecipata al contempo, l’attesa verso eventi epocali che epocali possono essere anche, e soprattutto, per il singolo individuo (come il ritorno a casa di un marito da tempo assente, vero cuore del prefinale) rappresentano il motivo più vero e profondo per approcciarsi a questa opera da parte di uno spettatore medio, il venir trasportati di peso e poi immersi in un mondo (forse) morente ma che si difende strenuamente, che tenta di sopravvivere in tutti i modi, proprio come quei singoli frammenti di pellicola che continuano a girare.

Capiamo le ristrettezze economiche, ma forse sarebbe stato preferibile dare la grana di un 16mm anche al film, invece della pulizia del digitale, o forse l’intenzione era proprio questa, certificare l’abbandono del passato con i mezzi del futuro, documentare la resilienza attraverso il progresso, inarrestabile, velocissimo, senza ritorno. Una tensione dialettica che non ci abbandona al termine della proiezione di That Cloud Never Left, e di cui siamo sicuri non abbia certezza e contezza nemmeno la giovane autrice. Lo spunto di riflessione è il vero lascito di quest’opera, meritatamente menzionata dalla Giuria a Pesaro capitanata da Amir Naderi.

That Cloud Never Left, la locandina

Scheda

Titolo originale: That Cloud Never Left
Regia: Yashasvini Raghunandan
Paese/anno: India / 2019
Durata: 65’
Genere: Drammatico, Documentario, Sperimentale
Fotografia: Paromita Dhar
Montaggio: Abhro Banerjee
Casa di Produzione: People’s Archive of Rural India

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