LA CURA

LA CURA

Adattamento sui generis del romanzo di Albert Camus La peste, La cura riflette sulla recente pandemia e più in generale sul male di vivere, confondendo realtà e finzione, ruoli cinematografici e sociali. Il risultato è a tratti affascinante, ma decisamente troppo frammentario e disuguale. In concorso alla Festa del Cinema di Roma 2022.

Curami

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A ormai due anni e mezzo dall’inizio dell’incubo del Covid-19, con una “fine del tunnel” che ancora non è realmente in vista, il cinema continua a tornare periodicamente sulla pandemia, legandovi temi più o meno collaterali e/o più o meno universali. Si inserisce proprio in questo solco La cura, nuovo lavoro di Francesco Patierno passato in concorso alla Festa del Cinema di Roma 2022, che utilizza tuttavia un espediente narrativo diverso da quelli che hanno mosso, finora, gli altri film sull’argomento: la sceneggiatura immagina infatti che una troupe cinematografica vada a girare una versione contemporanea de La peste di Albert Camus nella Napoli spettrale e deserta della primavera 2020, durante i primi giorni del lockdown. Nel film, lo spettatore segue parallelamente le vicende di attori, registi e tecnici del film – mentre tutto intorno è deserto, e l’idea stessa di girare un film in un periodo simile appare sempre più nella sua “scandalosa” provocatorietà – e quelle fittizie dei personaggi, incentrate sulla figura del medico Bernard interpretato da Francesco Di Leva. Gradualmente, tuttavia, i due piani narrativi si fondono, al punto che per lo spettatore diventa sempre più difficile discernere quale delle due storie stia realmente seguendo. Due storie che finiscono per convergere in un’unica, intensa frazione finale.

Immobilizzato nervosismo

La cura, Francesco Mandelli, Cristina Donadio e Giuseppe D'Ambrosio in una scena del film
La cura, Francesco Mandelli, Cristina Donadio e Giuseppe D’Ambrosio in una scena del film di Francesco Patierno

Il prologo di La cura – a cui verrà poi agganciato l’epilogo, in una ricercata struttura circolare – aggredisce da subito lo spettatore con una panoramica a schiaffo seguita da movimenti di macchina nervosi, trasmettendo l’idea di una provvisorietà e (quasi) di una voluta amatorialità di messa in scena; una scelta che sottolinea quasi come la resa degli eventi nel loro farsi risulti più importante, come istanza, del rispetto della grammatica cinematografica. Una scelta un po’ provocatoria, specie nel momento in cui, come nel caso specifico, si lega alla scelta di riprendere un paesaggio immobilizzato, sospeso e negato ai rituali della vita sociale dall’invisibile presenza del virus. Se dapprima i due piani narrativi del film sono facilmente individuabili, anche per il diverso approccio alla messa in scena, successivamente lo stesso stile di regia si fa più omogeneo, nel segno di una classicità che vuole restituire, parallelamente, le vite di personaggi e interpreti; una scelta che spiazza l’occhio di chi guarda proprio (paradossalmente) in virtù della sua maggior coerenza. Al centro di tutto, in una narrazione che segue a grandi linee la struttura del romanzo, c’è il personaggio interpretato da Di Leva, intrinsecamente fragile in entrambe le sue incarnazioni; un personaggio che è “eroe civile” più per necessità – e per impossibilità di fare altrimenti – che per reale scelta.

Non c’è tempo di emozionarsi

La cura, Alessandro Preziosi in una scena del film
La cura, Alessandro Preziosi in una scena del film di Francesco Patierno

Come già fece State a casa di Roan Johnson (ma con un’ambientazione consapevolmente più luminosa, accompagnata tuttavia da una minor lucidità di sguardo), La cura usa il virus come metafora, illustrando l’idea di una “patologia” dalla portata ben più ampia: mentre nel caso del film di Johnson, tuttavia, questa veniva identificata con la presenza umana – essa stessa “virus” che ha avvelenato il suo stesso habitat – qui il contagio è, genericamente, la mancanza di empatia e l’incapacità di comprensione reciproca tra gli individui. Un tema, probabilmente, fin troppo generico per arrivare in modo compiuto, oltre che eccessivamente diluito nei vari personaggi che popolano il racconto, alcuni dei quali solo abbozzati. Complice anche l’ora e mezza scarsa di durata, La cura non ha il tempo di (o forse non vuole) approfondire davvero tutti i suoi subplot: questo vale per l’amicizia tra Bernard e il collega Tarrou col volto di Alessandro Preziosi, accennata solo nella parte finale, così come per il focus sulla figura di Rambert (Francesco Mandelli), personaggio disperato dalla voglia di fuggire dalla città posta in quarantena, che poi subitaneamente – e un po’ inspiegabilmente – torna sui suoi passi. Il film, nella sua frammentarietà (a tratti comunque affascinante) non riesce nemmeno a esprimere compiutamente il suo lato melò, racchiuso nella vicenda familiare del protagonista, in quella di un suo collega divorziato, e nel subplot di una bambina malata affidata alle sue cure. Frammenti di storie per cui, letteralmente, non si ha il tempo di emozionarsi.

Mettersi a nudo

La cura, Peppe Lanzetta in una scena del film
La cura, Peppe Lanzetta in una scena del film di Francesco Patierno

Faticoso e affascinante in potenza (più che nella sua effettiva resa), La cura va a impattare anche i temi della fede contrapposta alla scienza, motivo tutto espresso nella figura del prete interpretato da Peppe Lanzetta, a cui si devono un paio di monologhi che restano tra i momenti emotivamente più forti del film. Momenti che comunque non riescono a inserirsi armonicamente nella narrazione, finendo a tratti per bloccarne lo sviluppo, e andando a delineare in modo potenzialmente interessante, ma monco, la vecchia dialettica fede/ragione (e la messa alla prova della prima in un periodo drammatico). Una dialettica che il film tutto risolve nel segno di un generico umanesimo, suggerendo la messa a nudo (fisica e simbolica) della persona come riscoperta del se, e della propria funzione all’interno di un dramma collettivo. Un’istanza che il protagonista sperimenta più volte, al di qua e al di là della finzione filmica, e che chiude il film in una simbolica immersione che si vorrebbe rigenerante. D’altronde il titolo stesso, che a differenza di quello del romanzo pone l’attenzione sul rimedio, più che sull’elemento patologico, sembra rivelare in modo esplicito l’intento positivo ed edificante della storia. Intento che a tratti riesce anche a emergere dalla complessa costruzione narrativa del film, ma che perlopiù resta soffocato dalle ambizioni dell’opera, tradotte in una struttura fin troppo disuguale.

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Scheda

Titolo originale: La cura
Regia: Francesco Patierno
Paese/anno: Italia / 2022
Durata: 87’
Genere: Drammatico
Cast: Francesco Di Leva, Ernesto Mahieux, Alessandro Preziosi, Andrea Renzi, Cristina Donadio, Eliana Miglio, Antonino Iuorio, Francesca Romana Bergamo, Francesco Biscione, Giuseppe Cirillo, Peppe Lanzetta, Vincenzo Del Prete, Viviana Cangiano, Francesco Mandelli, Giuseppe Cosentino, Giuseppe D'Ambrosio, Margherita Romeo, Maritè Musella, Pio Del Prete, Ramon D'Andrea
Sceneggiatura: Francesco Di Leva, Francesco Patierno
Fotografia: Paolo Pisacane
Montaggio: Simone Veneroso
Musiche: Massimo Martellotta
Produttore: Alessandro Cannavale, Andrea Cannavale
Casa di Produzione: Run Film Productions, Between Art Film

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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