COPENHAGEN COWBOY

COPENHAGEN COWBOY

Dopo il discusso Too Old to Die Young, Nicolas Winding Refn torna al format della serie tv con un prodotto ambientato in una Danimarca sulfurea e rarefatta, in bilico tra crime story e paranormale, metafisica e arti marziali: Copenhagen Cowboy è un’opera violenta e anticonvenzionale che spiazza e meraviglia.

La ragazza venuta dall’impossibile

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Nei sobborghi di una Copenhagen livida e feroce, Miu (Angela Bundalovic), una ragazza di origini misteriose, viene venduta a Rosella, una rozza matrona albanese sorella di un violento pappone di Copenhagen. Pare che Miu abbia particolari poteri, tra cui la capacità di dare un figlio alla donna che è già in età avanzata, ma quando questo non accade, la ragazza viene declassata nel bordello con le altre prostitute, vittime di soprusi da parte dei clienti, ma per nulla solidali nei confronti di lei. La fuga di Miu dal bordello di Rosella innesca una serie di fatti e incontri che la precipiteranno poco a poco in una spirale di crimini, violenze ma anche di inspiegabili prodigi di cui la ragazza, solo in apparenza spaesata, si fa il fulcro catalizzatore. Si tratta di coincidenze o forse di qualcosa di più?

Tra dannazione e purezza

Copenhagen Cowboy, un primo piano di Angela Bundalovic nella serie
Copenhagen Cowboy, un primo piano di Angela Bundalovic nella serie di Nicolas Winding Refn

Dopo il discusso Too Old to Die Young, uscito nel 2019 per Amazon Prime Video, con Copenhagen Cowboy il regista Nicolas Winding Refn torna al format della serie tv con un prodotto che, pur abbandonando il Messico e Los Angeles per la sua Danimarca, ha numerosi punti in comune con l’opera precedente.

L’archetipo di gran parte delle opere refniane è infatti quello di un protagonista (una sorta di cowboy appunto), che vaga per un mondo ostile e criminale, che lo contamina, ma può nel contempo trasformarlo in eroe, vittima e/o giustiziere che sia. Si pensi all’introverso stuntman di Drive, all’ingenua modella di Neon Demon, al poliziotto maledetto di Too Old to Die Young, e ora all’enigmatica Miu.

I racconti di Refn non sono storie di trama, ma storie di personaggi, che vivono una sorta di odissea oscura in bilico tra dannazione e purezza, un po’ come lo scorsesiano Travis Bickle di Taxi Driver.

La prima cosa che uno spettatore inconsciamente si attende, durante la visione di un film, è comprendere chi sono i buoni e chi sono i cattivi, cosa che nelle opere di Refn non sempre accade, o almeno non in modo così manicheo come ci si aspetta da una classica serie tv. In Copenhagen Cowboy infatti vediamo il mondo attraverso gli occhi di Miu, ragazza androgina dalle risposte rare e laconiche e dal fisico acerbo, avvolto in una dozzinale tuta blu che non concede nulla all’appeal. Chi sia, da dove venga e perché, non lo sappiamo, e forse non lo sa neppure lei. Forse.

Paura e delirio a Copenhagen

Copenhagen Cowboy, Jason Hendil-Forssell in una sequenza della serie
Copenhagen Cowboy, Jason Hendil-Forssell in una sequenza della serie di Nicolas Winding Refn

Eppure Miu è il passe-partout che traghetta lo spettatore nell’universo narrato da Refn, un mondo spietato che la fotografia esasperata tipica del regista rende surreale e fiabesco, una Copenhagen esteticamente bellissima e del tutto onirica, difatti per nulla differente dalla Los Angeles e dal Messico di Too Old to Die Young.

Trattandosi di una serie, l’adesione richiesta allo spettatore a questa folle realtà è ancora più forte e pervasiva, il che non genera quel senso di familiarità e di “coccola” che ci si attende dal tipico prodotto Netflix, bensì un profondo senso di straniamento.

La stessa inquietudine la suscita una serie come Too Old to Die Young la cui struttura è ancora meno classica di quest’ultima, in quanto narra episodi ed eventi che all’improvviso vengono interrotti con una profonda cesura.

Un po’ come in fondo accade nella vita quotidiana, in cui il Destino opera scelte che non rientrano nella coerenza di uno script pensato a tavolino, e mette in scena eventi che rendono le opere di Refn, seppur estetizzanti, paradossalmente più simili alla realtà vera, e non a quella patinata di una fiction netflixiana.

Tra Tarantino e Amenábar

Copenhagen Cowboy, Lola Corfixen in un'inquietante immagine della serie
Copenhagen Cowboy, Lola Corfixen in un’inquietante immagine della serie di Nicolas Winding Refn

In ogni caso, in Copenhagen Cowboy gli eventi si snodano in modo piuttosto lineare rispetto al lavoro precedente, ma è come se l’ambiguità della protagonista riverberasse sulla narrazione stessa e sul tipo di racconto. Quella che si presenta inizialmente come una cruda storia di sfruttamento della prostituzione e di lotta tra bande criminali mostra poco a poco delle smagliature, come se la dimensione crime/razionale ne celasse un’altra, occulta, di stampo paranormale.

Miu non soltanto pare capace di compiere miracoli o di gettare maledizioni su chi incontra, ma è anche in grado di vedere i morti. I grandi spazi vuoti narrati attraverso i sapienti piani sequenza e i controcampi a sorpresa del regista si popolano di fantasmi, mentre una grande villa padronale danese richiama le suggestioni gotiche del The Others di Alejandro Amenábar. Ma i registri di Copenhagen Cowboy sono molteplici e mutevoli, perché quella che ci appariva una ghost story e un noir si interseca e compenetra con i film di supereroi e di arti marziali.

Refn si ispira parecchio a Tarantino, perché il personaggio di Miu riecheggia l’iconica Sposa, giustiziera al femminile contro i soprusi subiti dalle donne, e la sua inseparabile tutina blu ricorda sia lei che Bruce Lee. Ma la talentuosa Angela Bundalovic, ballerina di professione, capace di essere allo stesso tempo dimessa e carismatica, indifesa e violenta, richiama certe eroine degli anime e dei videogame giapponesi. Non a caso, compare in un cameo anche il game designer Hideo Kojima, che a sua volta aveva inserito Refn nel suo Death Stranding.

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C’è del santo in Danimarca

Copenhagen Cowboy, Andreas Lykke Jørgensen in una sequenza della serie
Copenhagen Cowboy, Andreas Lykke Jørgensen in una sequenza della serie di Nicolas Winding Refn

Ma la serie cela inoltre una profonda componente metafisica, già accennata in altre opere del regista: si pensi all’epilogo cristologico di Drive, o alla componente di magia nera messicana presente in Too Old to Die Young, e qui suggerita fin dal principio da un fil rouge di simboli e visioni: la ripetuta presenza dei maiali, sia in carne e ossa che nell’accezione dispregiativa rivolta a diversi personaggi maschili, è un chiaro riferimento a Il signore delle mosche di William Golding, la testa di suino infissa su un palo e circondata di insetti, ovvero Lucifero. Il diabolico è simboleggiato dallo strapotere fallocratico del maschio, impersonato dal villain per eccellenza della serie, ovvero il personaggio di Niklas, un serial killer giovane biondo e ariano che ammazza prostitute ma che potrebbe avere chiari legami con l’Anticristo. Sempre dalla parte dei villain, la sorella di Niklas, l’oscura e bamboleggiante Lola Corfixen, figlia del regista, ed esatto contraltare di Miu.

Insomma, nella genesi della storia l’aspetto metafisico si fa sempre più manifesto, fino a diventarne il cuore, e il probabile mood per un’eventuale seconda stagione. È qui che si prefigura quello che è un po’ il limite della serie: l’esplicitazione di simboli e suggestioni che affascinano proprio perché sotto traccia ma che nel loro dispiegarsi in una deriva fantasy rischiano di polverizzarsi, banalizzando la storia in un didascalico scontro tra il Bene e il Male.

Copenhagen Cowboy a livello di trama è un’opera imperfetta, ma è innanzitutto lo Stile che diventa mezzo e materia di narrazione: la fotografia che gioca con il blu elettrico e il rosso sangue per raccontare il misticismo e il peccato, i corpi dei protagonisti, prigionieri di inquadrature claustrofobiche o spersi nelle nebbie di un mondo rarefatto e crudele, le frasi sbriciolate nei salotti spettrali o sotto le luci di un night e la musica ipnotica di Cliff Martinez, che scandisce il ritmo della visione e del sogno. Copenhagen Cowboy va al di là della semplice trama e degli sfilacciati cliffhanger di una serie tv, perché quello che Refn intende riprodurre e mettere in scena è quell’emozione di inquietante meraviglia che è poi il senso del suo Cinema.

Copenhagen Cowboy, la locandina della serie

Scheda

Titolo originale: Copenhagen Cowboy
Creata da: Nicolas Winding Refn
Regia: Nicolas Winding Refn
Paese/anno: Danimarca / 2022
Genere: Drammatico, Noir, Thriller
Cast: Maria Erwolter, Zlatko Buric, Andreas Lykke Jørgensen, Angela Bundalovic, Ayhan Taskiran, Chen Jiasi, Dragana Milutinovic, Emilie Xin Tong Han, Fleur Frilund, Hideo Kojima, Hok Kit Cheng, Jason Hendil-Forssell, Lei Ba, Li Ii Zhang, Lola Corfixen, Mads Brügger, Nicolas Winding Refn, Ramadan Huseini, Sandra Vukicevic, Uyen Nha Dang Nguyen, Valentina Dejanovic, Zhu Wencan
Sceneggiatura: Sara Isabella Jønsson Vedde, Nicolas Winding Refn, Johanne Algren, Mona Masri
Fotografia: Magnus Nordenhof Jønck
Montaggio: Allan Funch, Olivia Neergaard-Holm, Olivier Bugge Coutté
Musiche: Peter Kyed, Peter Peter, Julian Winding, Cliff Martinez
Produttore: Lene Børglum, Kimberly Willming, Christina Erritzøe, Karen Baumbach, Thomas Ryvald-Christensen
Casa di Produzione: NWR Film Productions, Space Rocket Nation
Distribuzione: Netflix

Data di uscita: 05/01/2023

Trailer

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Scrittrice, cinefila, bibliofila. Sono laureata in psicologia delle comunicazioni di massa e autrice della Trilogia dei Colori (Tutto quel nero, Tutto quel rosso, Tutto quel blu, 2011-2014) edita dal Giallo Mondadori, a cui è seguito Tutto quel buio (Elliot, 2018); nei quattro romanzi della serie la giovane cinefila Susanna Marino va alla ricerca di misteriosi film realmente scomparsi. Ho inoltre tradotto diversi autori noir tra cui Jeffery Deaver e la saga di Dexter, da cui è stata tratta la serie tv omonima, e nel 1999 ho ricevuto il premio "Adelio Ferrero" per la Critica Cinematografica. Colleziono compulsivamente dvd, libri introvabili e locandine di cinema.

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