FLEE

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A un anno dalla sua presentazione al Sundance Film Festival, Flee possiede già un’importanza storica notevole, e non solo per le tre nomination agli Oscar: il film di Jonas Poher Rasmussen, infatti, amalgama in modo mirabile storia e poesia, affresco di un popolo e romanzo di formazione, fondendo le sue istanze in un racconto insieme denso, rigoroso e lirico.

Amin fugge

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Se è vero che il filone a cui appartiene (quello che unisce i generi dell’animazione e del documentario) è oggi abbastanza frequentato – almeno a partire dal premiato Valzer con Bashir – è anche vero che un film come Flee, a un anno dalla sua presentazione originale al Sundance Film Festival, riveste già una sua notevole importanza storica. Il film diretto da Jonas Poher Rasmussen, infatti, racconto dell’odissea di un rifugiato afghano in fuga dalla guerra, ha conquistato ben tre nomination agli imminenti Academy Awards: a quella per il miglior film d’animazione si uniscono infatti quelle per il film internazionale e per il documentario, per un caso di fatto unico nella storia degli stessi Oscar. Un eventuale, e a ben vedere più che possibile, riconoscimento in una delle tre categorie, andrebbe a premiare – a nostro avviso giustamente – non tanto un’idea di cinema come contaminazione di generi (quella, come abbiamo visto, non è una novità assoluta), quanto la capacità di unire ritratto politico e afflato lirico, racconto di una tragedia collettiva e scoperta intima, affresco storico e romanzo di formazione. Il tutto utilizzando gli strumenti espressivi dell’animazione, e fondendoli con intelligenza col linguaggio del documentario.

Autobiografia di un fuggitivo

Una scena di Flee, di Jonas Poher Rasmussen
Una scena di Flee, di Jonas Poher Rasmussen

Flee è strutturato come una lunga intervista-confessione, quella resa dal protagonista Amin Nawabi (reale co-autore della sceneggiatura, anche se, come spiegano i titoli di coda, i nomi di tutti i protagonisti sono stati modificati) davanti alla videocamera di un suo conoscente danese: lo scopo, non specificato dal film, sembrerebbe essere per metà quello della realizzazione di un documentario-reportage, per l’altra metà quello di una sorta di seduta di autoanalisi.

Ascolta “Iran protagonista del fine settimana al cinema, ma a colpirci è Flee” su Spreaker.

Amin, rifugiato afghano in Danimarca, racconta per la prima volta per filo e per segno tutta la sua storia: dall’infanzia felice a Kabul, segnata dall’assenza del padre ma illuminata da una madre amorevole e da fratelli e sorelle capaci di supportarsi a vicenda, ai primi turbamenti con l’intuizione precoce della propria omosessualità, fino allo scoppio della guerra civile e alla fuga precipitosa dal paese; prima a Mosca, grazie alle conoscenze del fratello più anziano di Amin, da tempo trasferitosi in Europa, poi nel tentativo di traversata in mare verso la Svezia, arrivando attraverso altre peripezie all’approdo finale a Copenhagen. Per Amin, è l’occasione di liberarsi di un peso, e di riconnettere il suo presente felice (la vita condivisa col suo attuale compagno) coi fantasmi di un passato che non l’ha mai abbandonato.

Fuga verso casa

Una scena familiare del film Flee, di Jonas Poher Rasmussen
Una scena familiare del film Flee, di Jonas Poher Rasmussen

Flee inizia con una riflessione sul concetto di casa, e sul modo in cui questo viene declinato da una persona che ha passato gran parte della sua vita in fuga. È interessante notare come, per il protagonista, questo macro-concetto si declini innanzitutto in senso negativo (“un luogo dove sai di poter stare, senza paura di doverlo lasciare”, spiega nella scena iniziale), piuttosto che come positiva affermazione di uno spazio dove costruire la propria storia, condividere affetti e generare ricordi. La casa come luogo borghese di vita condivisa è, per Amin, uno spazio – e un concetto – ancora tutti da conquistare: come lui stesso ricorda, laddove si sia passata una vita in fuga, ci vuole tempo per imparare a fidarsi. E accogliere il concetto di fiducia, compresa quella nelle proprie stesse percezioni, è condizione primaria per il superamento di quella precarietà – esistenziale, prima ancora che sociale ed economica – che accompagna il protagonista fin dalla sua fuga da Kabul. Amin fugge ancora (verso l’America) anche laddove le ragioni della fuga sono ormai venute meno, in quanto ha disimparato – insieme alla sua stessa lingua – anche l’idea di famiglia e comunità; e lo fa proprio quando il suo compagno prova a costruire, specularmente, un nido e un luogo di condivisione. Ma nel contempo si affida al racconto autobiografico, del cui potere (di riconnessione col sé, e proiezione verso il futuro) il film fa una limpida celebrazione.

Il racconto e la Storia

Una scena notturna dal film Flee, di Jonas Poher Rasmussen
Una scena notturna dal film Flee, di Jonas Poher Rasmussen

La struttura di Flee ha il nitore della vita vissuta e la densità e malleabilità del racconto poetico. Quello che colpisce, del film di Rasmussen (documentarista qui al suo esordio nel lungometraggio narrativo) è il tono intimo, sentito ed empatico di un racconto che per larghi tratti sembra (e in parte è) narrazione autobiografica. Una narrazione capace di farsi, nel contempo, affresco sociale e storico, dramma di un popolo e di una categoria oppressa – quella dei migranti, per una volta raccontata da dentro – che viene sovrapposta a un altro gruppo sociale discriminato, persino “invisibile” nel periodo preso in esame (quello delle persone LGBT); un gruppo, quest’ultimo, le cui istanze nel film vengono ricondotte al privato del protagonista, e a un denso e realistico romanzo di formazione. Un romanzo all’interno del quale il peso della storia è presente fin dall’inizio, visualizzato di volta in volta nelle immagini documentaristiche che si alternano a quelle animate. E non a caso, con l’eccezione della sequenza iniziale e di quella finale, si tratta di immagini invariabilmente cupe, spesso violente: la riconnessione con la Storia (con la maiuscola) attraverso l’autobiografia, è anche per il protagonista una sorta di ritorno all’infanzia, all’atto di (af)fidarsi e al calore di un (nuovo) nido familiare.

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Estetiche che si amalgamano

Una malinconica scena del film Flee, di Jonas Poher Rasmussen
Una malinconica scena del film Flee, di Jonas Poher Rasmussen

L’estetica di Flee si basa, di fatto, su una tripartizione stilistica ben definita, presente lungo tutta la durata del film: laddove il racconto principale si affida a un disegno e a un’animazione piani, diremmo persino naturalistici, le esperienze più drammatiche vissute (direttamente) da Amin vengono trasfigurate in incubi, con le stesse sagome degli individui rese con tratti stilizzati e monocromatici, in toni quasi espressionisti; mentre l’irruzione, già ricordata, delle vicende collettive nella vita del ragazzo viene resa attraverso le immagini di repertorio, in un’integrazione della componente documentaristica che solo nell’inquadratura finale (contrappuntata da un uso intelligente della voce fuori campo) si riconcilia definitivamente con la struttura narrativa del film. Una capacità di armonizzazione rara, quella mostrata dal film di Jonas Poher Rasmussen, per un racconto che specie oggi (quando la tragedia di un conflitto, coi lutti e gli esodi da esso generati, torna a scuotere l’Europa) dispiega tutto il suo potere di coinvolgimento. Ma è bene ricordare che la parabola di Flee, col suo sguardo così rigoroso e insieme partecipato, possiede un valore che prescinde dalle (pur drammatiche) contingenze, caricandosi dei toni di una singolare “favola storica” che resta materia rara da vedere al cinema.

La locandina del film Flee (2021), di Jonas Poher Rasmussen

Scheda

Titolo originale: Flugt
Regia: Jonas Poher Rasmussen
Paese/anno: Svezia, Francia, Danimarca, Estonia, Regno Unito, Paesi Bassi, Stati Uniti, Finlandia, Italia, Norvegia, Spagna, Slovenia / 2021
Durata: 89’
Genere: Drammatico, Documentario, Animazione
Cast: Behrouz Bigdeli, Belal Faiz, Bo Asdal Andersen, Daniel Karimyar, Denis Rivin, Ditte Graa Wulff, Elaha Faiz, Fardin Mijdzadeh, Georg Jagunov, Hafiz Højmark, Mikhail Belinson, Milad Eskandari, Navid Nazir, Rashid Aitouganov, Sadia Faiz, The Dungeon Master, Vadim Nedaskovskij, Viktor Melnikov, Zahra Mehrwarz
Sceneggiatura: Jonas Poher Rasmussen, Amin Nawabi
Montaggio: Janus Billeskov Jansen
Musiche: Uno Helmersson
Produttore: Anne Charbonnel, Elle Malan, Barbara Truyen, Heidi Elise Christensen, Casey Meurer, Mathieu Courtois, Ragna Nordhus Midtgard, Charlotte de La Gournerie, Charlotte Most, Maria Ekerhovd, Elisa Fernanda Pirir, Thomas Gammeltoft, Smiley Stevens, Suroosh Alvi, Anne Köhncke, Alex Szalat, Callie Barlow, Jean-François Le Corre, Signe Byrge Sørensen
Casa di Produzione: Left Handed Films, Final Cut for Real, Sun Creature Studio, Pictanovo, Vivement Lundi, ARTE, Most Film, Mer Film, Vrijzinnig Protestantse Radio Omroep (VPRO)
Distribuzione: I Wonder Pictures

Data di uscita: 10/03/2022

Trailer

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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