SANCTUARY

SANCTUARY

Dopo essere stato presentato al Toronto Film Festival, questo Sanctuary, diretto da Zachary Wigon, arriva anche nel concorso della Festa del Cinema di Roma per scrivere una nuova pagina sull’erotismo della mente; o, per meglio dire, sulla dominazione di cui è capace sulle emozioni e sul corpo.

La dominazione della mente

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Quando si parla di dominazione si crede che il primo elemento a essere coinvolto sia quello sessuale. In realtà, ad avere un ruolo principale è la mente che, in questo caso, detta i modi e le condizioni dell’eccitamento fisico. Un aspetto che il film Sanctuary, presentato in concorso alla diciassettesima edizione della Festa del Cinema di Roma, mette in evidenza, uscendo completamente fuori da quelle atmosfere, spesso esagerate, in cui il concetto di dominazione passa soprattutto attraverso una sorta di situazioni punitive al limite della sopportazione. Allo stesso tempo, poi, il consiglio è abbandonare qualsiasi tipo di immagine o atmosfera pseudoromantica dal risvolto erotico in cui far agire un nuovo Mr. Grey. Nonostante, infatti, nel film di Zachary Wigon ci sia ben più di una sfumatura, nessuna di queste volge a un racconto scontato. Esattamente come non lo sono i due protagonisti, Hal e Rebecca che, chiusi tra le mura di una camera da letto, danno vita a un confronto serrato di menti e forza caratteriale in cui i ruoli di dominatore e dominato sono scambiati sempre con maggior frequenza.

Ma andiamo con ordine e proviamo a fare chiarezza su di una storia che, traendo forza da una sceneggiatura meticolosa nella costruzione delle interazioni, affida alla parola e al suo potere gran parte della sua riuscita. Come abbiamo detto, tutto gira esclusivamente intorno a due personaggi, Hal e Rebecca. Lui è il fresco erede di una dinastia di albergatori a molte stelle, lei una ragazza che per vivere escogita giochi di ruolo dal sottotesto sessuale per dei facoltosi clienti. Alcuni potrebbero chiamarla prostituta o escort ma, in realtà, non è nulla di tutto questo. Rebecca è una dominatrice che, senza coinvolgere minimamente la sfera fisica e senza alcun contatto, procura emozioni a pagamento. Il suo rapporto con Hal dura da molto, e insieme i due sono riusciti anche a esplorare molti lati oscuri della vita dell’uomo come, per esempio, il rapporto di sudditanza che lo lega alla memoria del padre ormai scomparso. La convinzione di non essere mai stato all’altezza del genitore, dunque, rende Hal il cliente perfetto per una giovane donna che, invece, ha dovuto imparare a lottare con le proprie forze per conquistare ogni singolo aspetto della sua vita. Due personalità così diverse, dunque, danno vita a un incontro dal ritmo alto e a tratti inquietante. Un gioco di potere in cui entrambi cercano in qualche modo di sopravvivere ma al quale non sanno e non vogliono sottrarsi. Soprattutto perché è l’ultima volta che s’incontreranno. O, almeno, così credono.

Dialogo a due

Sanctuary, Margaret Qualley e Christopher Abbott in una scena del film
Sanctuary, Margaret Qualley e Christopher Abbott in una scena del film di Zachary Wigon

Quando si ha l’ambizione di realizzare un film basato su due soli protagonisti in continua interazione tra di loro, chiusi all’interno di una stanza d’albergo per tutta la durata del racconto, si deve necessariamente partire da una scrittura minuziosa dei caratteri, delle situazioni, e soprattutto dell’arco emotivo ed evolutivo della vicenda. Elementi che la sceneggiatura di Micah Bloomberg prende in considerazione ed esplora con grande attenzione. Questo vuol dire che, alla base di un film così ben gestito nell’evoluzione del ritmo interiore dei suoi protagonisti e del loro rapporto, c’è un’immaginazione concreta, una capacità di pensare e definire le emozioni, tanto da renderle tangibili allo spettatore ma, prima di tutto agli interpreti scelti.

Sanctuary riesce a mettere in pratica tutto questo senza, oltretutto, ricorrere a nessun tipo di effetto sensazionalistico e, come accennato, tralasciando la sessualità sul fondo di questo racconto. A dire il vero, nonostante i presupposti facciano pensare esattamente il contrario, l’andamento narrativo e interpretativo sorprende, spostando velocemente l’attenzione su ambiti più interessanti. Christopher Abbott e Margaret Qualley sono chiamati, piuttosto, a un confronto costante, quasi estenuante, dove non è concesso mai rimanere al riparo. Seguendo un andamento sinusoidale, dunque, i due ingaggiano in Sanctuary quella che può apparire una lotta per la sopravvivenza, alternando accenni di follia, maniacalità, introspezione, forze e debolezze. Uno scontro solo apparente che, però, conserva al suo interno un significato ben più profondo; un legame che nessuno dei due vuole spezzare. Così, in un rimando continuo di dominio e fragilità in cui i ruoli si alternano, consegnando il coltello dalla parte del manico sia all’uno che all’altro, si va dipanando sempre più chiaramente il rapporto di una coppia che, nella solitudine di una camera d’albergo, ha costruito un mondo altro a cui appartenere onestamente. Indossando delle maschere e interpretando un ruolo, infatti, i due riescono a trovare il coraggio di essere se stessi fino in fondo, mostrando eccessi e debolezze: tutto ciò che il mondo esterno non deve vedere perché non accetterebbe. In questo senso, dunque l’altro diventa l’essenziale, l’unico luogo in cui non dover fingere pur facendolo.

Guardare dal buco della serratura

Sanctuary, un primo piano di Margaret Qualley nel film
Sanctuary, un primo piano di Margaret Qualley nel film di Zachary Wigon

Nella gestione di questo gioco psicologico viene costruito un ambito fortemente intimo che appartiene esclusivamente ai due protagonisti; un concetto di privacy che, però, viene immediatamente negato e forzato dalla natura stessa del prodotto cinematografico che si esprime nel mostrare. Le immagini che si vedono riflesse sullo schermo, dunque, sembrano quasi una violazione della quotidianità di una coppia, un frammento di una giornata particolare e di un gioco in cui il pubblico non è stato invitato. Questa sensazione di esclusione, però, aumenta ancora di più la curiosità e il desiderio di osservare senza averne il permesso. O, almeno, senza la consapevolezza dei due diretti interessati.

In questo senso è come se il gioco di ruoli e condizionamenti instauratosi tra i due attori di Sanctuary si estendesse anche al di fuori dello schermo, coinvolgendo la sala. A dirigere il tutto è, ovviamente, il regista, che, offrendo un angolo di osservazione privilegiato e segretissimo, come il buco di una serratura, manovra le emozioni fuori e dentro lo schermo. Una percezione che non arriva subito al pubblico, troppo coinvolto nel gioco di Hal e Rebecca, ma che appare chiara non appena la storia arriva al suo termine e le luci si accendono. In quel preciso momento si ha la sensazione di aver fatto di parte di una narrazione più ampia e, al pari dei due protagonisti, di essere stati invitati a vestire un ruolo e a indossare una maschera: quella di chi guarda.

Sanctuary, la locandina italiana del film

Scheda

Titolo originale: Sanctuary
Regia: Zachary Wigon
Paese/anno: Stati Uniti / 2022
Durata: 96’
Genere: Drammatico, Thriller
Cast: Christopher Abbott, Margaret Qualley
Sceneggiatura: Micah Bloomberg
Fotografia: Ludovica Isidori
Montaggio: Kate Brokaw, Lance Edmands
Musiche: Ariel Marx
Produttore: David Lancaster, Ilya Stewart, Stephanie Wilcox, Pavel Burian
Casa di Produzione: Hype Studios, Mosaic Films, Rumble Films (II), Charades
Distribuzione: I Wonder Pictures

Data di uscita: 25/05/2023

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Fin da bambina, ho sempre desiderato raccontare storie. Ed eccomi qui, dopo un po’ di tempo, a fare proprio quello che desideravo, narrando o reinterpretando il mondo immaginato da altri. Da quando ho iniziato a occuparmi di giornalismo, ho capito che la lieve profondità del cinema era il mio luogo naturale. E non poteva essere altrimenti, visto che, grazie a mia madre, sono cresciuta a pane, musical, suspense di Hitchcock, animazioni Disney e le galassie lontane lontane di Star Wars; e un ruolo importante l’ha avuto anche il romanticismo di Truffaut. Nel tempo sono diventata giornalista pubblicista; da Radio Incontro e il giornale locale La voce di Roma, passando per altri magazine cinematografici come Movieplayer e il blog al femminile Smackonline, ho capito che ciò che conta è avere una struggente passione per questo lavoro. D’altronde, viste le difficoltà e le frustrazioni che spesso s’incontrano, serve un grande amore per continuare.

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