TITO

TITO

Esordio nella regia di un lungometraggio dell’attrice/regista Grace Glowicki, interessante escursione tra l’indie e la psicanalisi, Tito spoglia il racconto cinematografico di qualsiasi orpello, sovrapponendo il suo sguardo a quello deragliante del(la) protagonista. Nella sezione Afterhours del Torino Film Festival.

Il tormento di Tito

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Sono due, in questa edizione del Torino Film Festival, i film che hanno visto protagonista l’attrice canadese Grace Glowicki, astro nascente della scena indie locale. Da una parte Raf, diretto da Harry Cepka (qui presente nel ruolo di produttore), dall’altra questo Tito, in cui l’attrice esordisce anche dietro la macchina da presa. Due opere affini eppure divergenti, accomunate dalla figura sui generis, dalla fisicità sfuggente, della giovane attrice canadese: se il film di Harry Cepka, tuttavia, mostrava ancora una struttura narrativa classica, qui la Glowicki sembra volersi liberare del tutto (o quasi) degli orpelli del racconto cinematografico propriamente detto. Fin dai titoli di testa, bianco su rosso a introdurre la corsa terrorizzata del protagonista, verso la villa in cui si svolgerà gran parte del film, l’essenzialità sembra essere la cifra stilistica principale di Tito: ridotta all’osso (ed è facile) la trama verte semplicemente sull’amicizia tra un outsider autorecluso e un individuo che si introduce non invitato nella casa in cui ha trovato rifugio. Un’amicizia destinata a scontrarsi con le contingenze e le rispettive idiosincrasie psichiche.

Come (e più che) in Raf, l’ambiguità sessuale sembra essere il leit motiv che attraversa un po’ tutto il film, un’ambiguità tutta concentrata nella figura del(la) protagonista: la Glowicki dà a Tito un volto e un corpo difficili da inquadrare in categorie di genere predefinite. Il suo compagno/aguzzino (l’attore Ben Petrie, a sua volta regista del corto My Friend Adam, in cui l’attrice era co-protagonista), d’altra parte, le si rivolge quasi ossessivamente con l’appellativo “man”; ma la femminilità del personaggio sembra rivelarsi esplicitamente non appena questi pronuncia una delle sue pochissime battute. Un’ambiguità che viene mantenuta fino all’ultimissima scena, in una corporeità che rifiuta ostinatamente di rivelarsi. L’ansia paralizzante che caratterizza il personaggio, tuttavia, incarnata in visioni di immaginari predatori che bussano alla sua porta, sembra diventare soverchiante quando l’amico gli propone un’uscita in discoteca a caccia di ragazze; se si tratti di semplice ansia sociale, o di un sentimento legato a un sentirsi lui stesso “preda”, questo non ci è dato di sapere.

Estremamente contratto nella durata (70 minuti) ma pregno di temi e suggestioni, Tito sceglie la via di un cinema che guarda all’indie americano (innanzitutto quanto a scelte di fotografia) ma lo spoglia dei suoi orpelli narrativi, rendendolo in un certo senso un oggetto più interessante. La narrazione è immobilizzata nella casa del protagonista, stretta in una (nuova) routine che diviene via via più asfissiante, scandita dagli spinelli come unica cura per l’ansia lancinante del protagonista, e del fare sempre più invadente, debordante e fuori controllo del nuovo amico (denominato semplicemente “The Friendly Neighbour” nei titoli di testa). La presenza continua del commento sonoro intra ed extradiegetico si accompagna a una vocalizzazione che diviene, paradossalmente, elemento accessorio e non necessario per la trama: un elemento interessante di Tito è quello di recuperare – anche esplicitamente, in alcune scene oniriche che vedono il protagonista su uno sfondo virato al giallo ocra – i codici espressivi del muto, ivi compresa una recitazione che demanda più al linguaggio del corpo che alla parola.

Tito, come Raf, balla da solo, ma la sua danza si rompe non appena si apre un minimo spazio di condivisione. Il suo destino, come quello della gemella/alter ego, resta più che mai incerto. Il film di Grace Glowicki ha il pregio di parlare un linguaggio visivamente scarno ma a suo modo accattivante, con deragliamenti quasi horror e un senso costante di dissociazione e precarietà che, nei limiti del “formato”, risulta efficace e capace di colpire nel segno. La parte iniziale cede forse qualcosa a un’estetica indie che, reiterata di film in film – anche in quanto a scelta delle situazioni, si veda tutta la prima “uscita” dei due amici nel mondo esterno – resta leggermente stucchevole; a tratte si avverte forse, in tutto il film, la mancanza di una narrazione più classica, vista anche la complessità dei temi trattati. Il film pare inoltre interrompersi laddove, forse, poteva esserci altro da dire. Ma Tito, sembra dirci la regista/protagonista, è così: prendere o lasciare. E questo suo esordio dietro la macchina da presa, forse, potrebbe dare adito in futuro a sviluppi interessanti.

Tito (2019) poster locandina

Scheda

Titolo originale: Tito
Regia: Grace Glowicki
Paese/anno: Canada / 2019
Durata: 106’
Genere: Commedia
Cast: Ben Petrie, Grace Glowicki
Sceneggiatura: Grace Glowicki
Fotografia: Christopher Lew
Montaggio: Brendan Mills
Musiche: Casey Manierka-Quaile
Produttore: Grace Glowicki, Harry Cepka, Miriam Levin-Gold, Ben Petrie
Casa di Produzione: Creature Features, Hawkeye Pictures

Trailer

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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