UN MONDO FRAGILE

UN MONDO FRAGILE

Esordio per il colombiano César Augusto Acevedo, Un mondo fragile mette in scena l'eterna dialettica tra tradizione e progresso, radici e necessità di trasformazione, in un film scarno e rigoroso, che chiede allo spettatore di adeguarsi al suo passo e ai suoi tempi.

L'ombra del mutamento

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Alfonso, contadino separato che da tempo vive in città, torna dopo diciassette anni dalla sua famiglia, per accudire suo figlio malato. Al suo ritorno, l’uomo deve confrontarsi con l’ostilità della moglie, che non gli ha mai perdonato l’abbandono di allora, con una nuora e un nipote che non ha mai conosciuto, ma soprattutto con un paesaggio che è drammaticamente cambiato: vaste piantagioni di canna da zucchero hanno ricoperto i dintorni della casa, mentre nell’aria si respira costantemente la cenere provocata dagli incendi appiccati per lo sfruttamento dei campi. Mentre le condizioni del figlio di Alfonso, Gerardo, si aggravano, sua moglie e sua nuora sono sempre più in difficoltà, anche a causa dei mancati pagamenti per il lavoro nei campi. Per la ricostituita famiglia si pone una drastica alternativa: lasciare la misera vita di campagna, sperando così di veder migliorare la salute di Gerardo, o restare attaccati alle proprie radici, e a un territorio ormai depredato dall’avanzare del progresso.

Già presentato con successo nel corso della Semaine de la Critique dell’ultimo Festival di Cannes, Un mondo fragile è l’esordio nel lungometraggio del regista colombiano César Augusto Acevedo (classe 1987). Un progetto nato da una tesi di laurea dello stesso regista, incentrato su una dialettica tra le radici e l’avanzare del progresso che è particolarmente cara al cinema sudamericano. Il titolo originale del film (La tierra y la sombra) è ancora più esemplificativo delle intenzioni del regista, nonché del suo fulcro tematico: da un lato un territorio che rappresenta, per tutti i personaggi, il legame inscindibile con le proprie radici, territorio che tuttavia è stato sconvolto e radicalmente modificato dal suo sfruttamento intensivo; dall’altro, l’ombra della memoria, un paesaggio ormai fantasmatico, più mentale che fisico, innervato dai ricordi di una vita (e di un mondo) che un tempo è stato e non è più.

Un’ombra, quella del titolo originale, che è anche quella fisica dell’albero nel giardino della casa di Alfonso, ultimo baluardo di un passato che non vuole morire, testimone di una vita ormai definitivamente scomparsa; un’esistenza al cui fantasma, tuttavia, i protagonisti sono restii a rinunciare. Temi che il regista mette in scena con un’estetica scarna ma elegante, basata su una fotografia dai toni grigi e neutri, e sull’assenza totale di commento sonoro: l’intento è far emergere, grazie anche alle buone prove degli interpreti, i sentimenti e la geografia emotiva della famiglia protagonista, nei suoi smottamenti e nell’inevitabile cambiamento a cui si avvia.

Scarno nella narrazione, dilatato nel suo incedere, quasi claustrofobico nel suo essere tutto giocato su pochi ambienti (la casa, il giardino, le piantagioni di canna da zucchero), Un mondo fragile si avvale di una sceneggiatura intensa e calibrata, e di una regia perfettamente adeguata ai suoi intenti. Al suo esordio, Acevedo mostra una notevole consapevolezza del mezzo, non indugiando in virtuosismi ma mantenendo un perfetto controllo sull’immagine: il suo stile è asciutto e insieme magnetico, a partire dalla scelta di un digitale povero, che esalta al meglio gli ambienti che ritrae.

Le tonalità della fotografia si dividono tra la cupezza costante degli interni, sempre nella penombra per difendere i personaggi dall’aria tossica che si respira fuori, e i colori sbiaditi degli esterni, di tanto in tanto (inquietantemente) contaminati dalla pioggia di cenere nera degli incendi. Questi ultimi, nel loro furore distruttivo, rappresentano l’unico accendersi cromatico di un paesaggio grigio e quasi apocalittico: un non luogo, fuori dallo spazio e dal tempo, triste simulacro di un universo che sopravvive solo nella memoria. A muoversi in esso, i cinque bravissimi interpreti, ripresi in lunghi piani sequenza, a dare l’idea di una memoria che (con la sua calcolata lentezza) si oppone a un progresso che avanza minaccioso, a ritmi vertiginosi.

L’essenzialità voluta, fortemente ricercata, di questo Un mondo fragile, lo evidenzia un po’ come un corpo estraneo nel contesto del cinema odierno: di quello mainstream, principalmente, ma anche di molto cinema indipendente. Chi sia abituato a ritmi più intensi, ma anche a un’estetica più “urlata” e sopra le righe, potrebbe restare perplesso dalla costruzione visiva e narrativa del film, tutta nel segno dell’understatement (e in questo si inserisce anche l’assenza di colonna sonora). Una scelta che vuole valorizzare la natura di un film in cui la scrittura è l’elemento cardine, che si affida per il resto agli interpreti e ai segni con cui questi si confrontano, quelli sui loro volti e quelli nel territorio intorno a loro. Il film di César Augusto Acevedo va visto, insomma, adeguandosi ai suoi tempi, accettando di seguirne il battito e l’incedere.

Scheda

Titolo originale: La tierra y la sombra
Regia: César Augusto Acevedo
Paese/anno: Colombia, Francia, Cile, Brasile, Paesi Bassi / 2015
Durata: 97’
Genere: Drammatico
Cast: Edison Raigosa, Felipe Cárdenas, Haimer Leal, Hilda Ruiz, Marleyda Soto
Sceneggiatura: César Augusto Acevedo
Fotografia: Mateo Guzmán
Montaggio: Miguel Schverdfinger
Produttore: Paola Pérez Nieto, Jorge Forero
Casa di Produzione: Burning Blue, Ciné-Sud Promotion, Preta Portê Filmes, Topkapi Films
Distribuzione: Satine Film

Data di uscita: 24/09/2015

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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