QUANDO ERAVAMO FRATELLI

QUANDO ERAVAMO FRATELLI

L’accattivante confezione indie, con un granuloso e denso 16mm, non toglie sostanza a un esordio come Quando eravamo fratelli; il regista Jeremiah Zagar, forte sia del suo passato di artista che di documentarista, fa una cruda e lirica ricognizione sui misteri dell’infanzia.

Volare e sprofondare

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Sono tanti, i riferimenti e le suggestioni che vengono in mente, guardando un esordio come questo Quando eravamo fratelli. Un esordio nel cinema di finzione, per il regista Jeremiah Zagar, che ha subito ricevuto i consensi del pubblico del Sundance, certo abbastanza smaliziato, e da tempo svezzato in fatto di svolazzi estetici e sperimentalismi. E in effetti, guardando la confezione del film di Zagar (ex artista hippie, già documentarista per la HBO), viene in mente che la sua estetica sia parte di un generale formato “da Sundance” che si è lentamente consolidato nel corso degli ultimi due decenni: ciò è vero tanto per il suo denso e granuloso 16mm, per il montaggio frammentato e l’uso frequente della camera a spalla, quanto per l’attenzione precipua ai bassifondi della provincia americana. Il sospetto di maniera e compiacimento, di essere di fronte a un regista abituato a specchiarsi nella sua estetica (che sia levigata o cheap, poco importa) tralasciando le basilari regole della narrazione cinematografica, si fa strada più di una volta durante la visione di questo esordio; viene in mente l’involuzione di un maestro come Terrence Malick – con le sue recenti pseudosinfonie urbane, sempre più pedanti e autoreferenziali – o il compiacimento “progressista” del celebrato Moonlight (a cui pure il film è stato accostato).

Sembra particolarmente in linea con un approccio di questo genere, il soggetto di Quando eravamo fratelli, ispirato al romanzo di Justin Torres We the Animals (che è anche titolo originale del film): tre fratelli, figli del sottoproletariato di origini portoricane, una famiglia disfunzionale nata più per caso che per sbaglio, un padre violento quanto mentalmente fragile, una madre che cerca di tenere i figli lontani dal modello paterno. E, in tutto ciò, il fratello minore più incline degli altri all’introversione – e alla fantasticheria -, un diario trasformato in voce fuori campo e vera e propria mappa onirica, la voglia di crescere alle proprie condizioni; e poi le visioni che si animano, prendendo la forma di fiammeggianti schizzi disegnati, potente mezzo di espressione per il mondo interiore del piccolo Jonah. Tutto concorre a un approccio lirico, che ricerca costantemente la bellezza tanto nelle sequenze “a misura di bambino” – quelle che (con un approccio tra Stand By Me – Ricordo di un’estate e Il signore delle mosche) indagano ed esplicitano la magia e i misteri dell’infanzia -, quanto in quelle che mettono in scena l’abbrutimento del mondo adulto, l’incuria (in)colpevole per cose e persone, il nichilismo trasmesso e recepito tra le generazioni.

Quando eravamo fratelli adotta l’ottica del piccolo Jonah (un esordiente Evan Rosaldo, notevole come i suoi due comprimari) e si configura come un suo personale – e atipico – coming of age; una ricognizione sui misteri dell’infanzia filtrati da una fantasia vivida e irrefrenabile, che entra fin da subito in conflitto (riuscendo infine ad assorbirla e a trasfigurarla) con la più brutale delle realtà. Fin dall’inizio risulta evidente lo scarto e la differenza tra il modo di esperire il mondo – e gli stessi giochi infantili – di Jonah, e quelli dei suoi fratelli Joel e Manny: i tre fanno insieme il body heat sotto le lenzuola del letto, ivi creando e illuminando il loro spazio condiviso; ma poi Jonah si ritira sotto il letto a disegnare, cullandosi nella sua confort zone, raggiungendo solo in quelle occasioni quella limpidezza di sguardo (interiore) che altrove gli era negata. I giochi infantili esperiti collettivamente saranno presto conclusi, e di ciò sui volti di Joel e Manny, già in nuce induriti e determinati, sono evidenti fin da subito i segni; ma il “terzo occhio” di Jonah è destinato a sopravvivere ed espandersi, recando con sé sogni e incubi in egual misura.

Colpisce, e stupisce, la simbologia spaziale espressa a più riprese dal film, che vede il piccolo protagonista occupare una posizione ambivalente: più volte ci viene mostrato il suo terrore per l’acqua e il suo incubo di annegare, ma poi quella stessa profondità (interna ed esterna, letterale e metaforica) viene da lui ricercata a più e più riprese; ciò è vero nella dimensione sommersa e personale dello spazio sotto il letto, nel lercio e misterioso seminterrato in cui l’affascinante amico fa collezione di videocassette, nella buca scavata dal padre per motivi ben più prosaici, ma trasformata da Jonah in letto magico capace di rigenerare l’anima. La prospettiva di affondare è temuta e bramata in egual misura, col suo doppio carico di realizzazione personale e prospettiva di solitudine; ma ancor più paura fa la dimensione – quella più collettiva e condivisa – dell’altezza e del volo, popolata da creature viste come capaci di spezzare in due (letteralmente) un individuo. La soluzione – forse – sta nell’allontanamento e nella ricerca personale, nel rifiuto (in)cosciente di tutti i modelli, nel sostegno di qualcosa che ancora, nella mente, non ha preso il nome di amore; ma che già contiene il nebuloso embrione di quel concetto.

Se è vero che può apparire a volte compiaciuto, questo Quando eravamo fratelli, se è vero che il suo andamento rapsodico si fa a tratti difficile da seguire, se è vero che a volte si brama, nei densi 94 minuti della sua durata, un modello di narrazione più classico e fruibile, è anche vero che la lucidità di sguardo del regista – e la portata dei temi espressi – tengono il film ben al di qua del confine del vuoto esercizio di stile. Zagar mostra nel suo film uno sguardo capace di colorare fantasticamente (tanto di toni tenui ed elegiaci, quanto cupi e violenti, spesso alternati senza soluzione di continuità) un quotidiano che comunque emerge, dal film, in tutta la sua cruda materialità; in questo, risulta evidente tanto il suo passato di artista influenzato dal movimento hippie, quanto la sua formazione di documentarista. Una sintesi che ha prodotto un risultato sicuramente interessante, concettualmente di ottimo spessore; e poco importa se a volte il regista – comprensibilmente – perde di vita i concetti di equilibrio narrativo, lasciando libero il suo occhio di vagare, indifferentemente, in aria e nell’abisso, con la stessa inesausta, infantile meraviglia.

Scheda

Titolo originale: We the Animals
Regia: Jeremiah Zagar
Paese/anno: Stati Uniti / 2018
Durata: 93’
Genere: Drammatico
Cast: Raúl Castillo, Sheila Vand, Evan Rosado, Giovanni Pacciarelli, Isaiah Kristian, Josiah Gabriel, Terry Holland
Sceneggiatura: Jeremiah Zagar, Dan Kitrosser
Fotografia: Zak Mulligan
Montaggio: Brian A. Kates, Keiko Deguchi, Jeremiah Zagar
Musiche: Nick Zammuto
Produttore: Christina D. King, Jeremy Yaches, Andrew Goldman, Paul Mezey
Casa di Produzione: Cinereach, Public Record
Distribuzione: I Wonder Pictures

Data di uscita: 16/05/2019

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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