FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019: UN BILANCIO E QUALCHE NOTA A MARGINE

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2019: UN BILANCIO E QUALCHE NOTA A MARGINE

La manifestazione romana si è chiusa con un bilancio positivo – rimbalzato su tutti i principali media – in termini meramente numerici, ma anche con quel senso di indeterminatezza e di assenza di un'identità precisa che ne ha (quasi) sempre contraddistinto l'esistenza.

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A una settimana dal termine di questa 19a edizione della Festa del Cinema di Roma (la denominazione ufficiale sembra tornata a essere questa, ma abbiamo imparato che nulla è definitivo) possiamo provare a tracciare un bilancio – per forza di cose parziale – di ciò che abbiamo visto nelle undici giornate dell’evento romano, e delle impressioni che quest’ultimo, nel suo complesso, ci ha trasmesso. Una manifestazione, quella capitolina, che, superata ormai abbondantemente la “maggiore età”, e avviatasi verso lo spegnimento delle sue prime venti candeline, sembra aver trovato una sua identità (paradossalmente) proprio nella mancanza di un’identità chiara e definita. Una linea, quella del direttore Antonio Monda – ormai da cinque anni stabilmente alla guida della manifestazione, e verosimilmente destinato a restarci a lungo – che sembra per ora pagare in meri termini di pubblico (+18% di incassi in più, stando ai dati ufficiali) ma che non ci è dato sapere quanto, e se, potrà durare; diciamo ciò vista anche l’estrema mobilità e fluidità – per non dire precarietà – di quella situazione politica romana di cui la Festa è da sempre diretta espressione.

Il direttore, nella conferenza stampa di chiusura, ha minimizzato le défaillances e i veri e propri scivoloni registrati (la nota assenza della traduzione nell’incontro con Bill Murray – di cui è stata addossata la colpa allo stesso attore – le defezioni di ospiti annunciati, tra cui Benicio del Toro e Kristin Scott Thomas) sostenendo che gli incidenti siano stati ampiamente controbilanciati dai numeri dell’evento, e dalla soddisfazione del pubblico. Nell’ottica di un festival cinematografico (lo chiamiamo così per comodità) che vuole fare della varietà e del carattere “pop” della proposta la sua cifra principale, la manifestazione capitolina sembra in effetti aver raggiunto il suo scopo: solo guardando il cartellone, e ancor più assistendo ai film e “vivendo”, da addetti ai lavori, nei locali dell’Auditorium, la caratteristica dell’eterogeneità, spinta fino a diventare indeterminatezza e a tratti confusione, pare essere stata pienamente raggiunta. Ci si chiede legittimamente, tuttavia, in un’edizione che più delle altre pare reggersi unicamente su questa peculiarità – nonché sul traino di un paio di titoli di richiamo, ma su questo torneremo – se ciò possa essere sufficiente per giustificare gli entusiasmi che un po’ tutta la stampa mainstream ha tributato all’evento romano.

Parliamo di indeterminatezza non a caso, vista la presenza di ospiti slegati dai film in cartellone, la convivenza priva di coesione tra blockbuster e opere indipendenti, la scelta di pescare indifferentemente il film d’autore passato in un festival oltreoceano, la commedia francese già uscita in sala in patria, e l’opera indipendente destinata unicamente al circuito televisivo. Non è solo questione del numero di anteprime mondiali presenti (che Monda ha sostenuto essere in aumento – ma per onestà intellettuale il numero andrebbe depurato dei film italiani) ma di una visione complessiva, di un’idea forte, e da buon ultimo di un legame col territorio e il suo pubblico, che dovrebbe “fare” – principalmente – un evento culturale. Questa visione, nell’Auditorium e nelle sedi periferiche della Festa, semplicemente è mancata: e non si tratta di sofismi da settari del cinema indipendente, o di lamentele contro chi comunque ha portato un festival nella capitale, ma della differenza tra un vero evento culturale – composto da tante occorrenze, e tuttavia risultante in un “corpo” complessivo che è più della loro mera sommatoria – e un semplice assemblaggio di film, risultato di una suddivisione a tavolino con lo scopo di accontentare un po’ tutte le categorie di pubblico, e col principale “criterio” della disponibilità del momento.

Vogliamo essere comunque estremamente chiari: la qualità, all’Auditorium, non è mancata, se leghiamo questo termine solo alla riuscita dei singoli film; ma questa non è certo una novità per l’evento capitolino. La presenza di The Irishman di Martin Scorsese, giunto a Roma dopo un lungo “tour” che lo ha portato prima a New York e poi a Londra (e che terminerà, non senza polemiche, sugli schermi di Netflix) ha trainato la proposta della Festa sia in termini di qualità che di interesse; l’apertura di Motherless Brooklyn – I segreti di una città di Edward Norton ne ha sottolineato il proporsi come popolare e autoriale insieme; la sezione Tutti ne parlano, con i tre film proposti (La Belle Époque, Share e The Vast of Night) ha confermato il prevalente sguardo al pubblico e la scelta di titoli già “rodati” sul circuito festivaliero internazionale. Non si può, tuttavia, non restare perplessi da una grande maggioranza di titoli destinati ad approdare in sala a pochi giorni dalla conclusione dell’evento, se non addirittura contestualmente al suo svolgimento: parliamo nella fattispecie del deludente Jesus Rolls – Quintana è tornato (preapertura presentata – un po’ surrettiziamente – come “anteprima mondiale”), del divertente horror Scary Stories to tell in the Dark, del biopic Pavarotti, del period drama di derivazione televisiva Downton Abbey. E, d’altra parte, la commedia Le ragazze di Wall Street – Business is Business e i già citati Motherless Brooklyn e La Belle Époque sono in dirittura d’arrivo.

Nella conferenza stampa di apertura della Festa, lo stesso Monda e la presidente della Fondazione Cinema per Roma, Laura Delli Colli, avevano comunque provato a tracciare alcune ipotetiche linee tematiche (o motivi ricorrenti) nei titoli della selezione ufficiale: ma i riferimenti sono stati talmente generici, e gli accenni fatti così brevi, da rivelare molto sulla reale presenza di una qualche “ricerca” dietro il programma. D’altronde, qualche tema ricorrente e qualche similitudine diventa praticamente inevitabile, su un alto numero di film selezionati nello stesso anno: e dire che uno di tali temi ricorrenti sia “la musica”, accomunando nella categoria il biopic Judy, due documentari diversissimi come Pavarotti e Western Stars, e l’ultraindipendente I wish I was like you, è in sé operazione che sfida il concetto di genericità. Stesso discorso può essere fatto per la supposta attenzione all’universo femminile (di nuovo: sfidiamo una qualsiasi selezione di un festival, piccolo o grande che sia, a rimanervi totalmente estranea) o a una presenza del tema bellico – in titoli pur interessanti quali Military Wives, 1982, Tantas Almas o On Air – che va fatto risalire più alla contemporaneità, e all’inevitabile legame del cinema con essa, che a una qualche scelta cosciente dei selezionatori.

Evitiamo di soffermarci – per non tediare ulteriormente il lettore, ma anche per il carattere effimero e poco contestualizzato delle proposte – sulle nuove sezioni Duel e Fedeltà/Tradimenti, sulla consueta e autoreferenziale scelta da parte dei selezionatori dei Film della nostra vita, nonché sulle due retrospettive proposte (Max Ophüls e Hirokazu Kore-eda): sicuramente di notevole pregio, queste ultime, ma programmate in location – il MAXXI e la Casa del Cinema – tali da trasmettere l’idea di microeventi a parte, separati da quello principale oltre che (almeno nel secondo caso) non proprio agevoli da raggiungere. Davvero separata, al punto da costituire ormai un festival a sé, distinto e totalmente autonomo, si è confermata invece la sezione Alice nella Città, di fatto “concorrente” della selezione ufficiale quanto a numero di film (41 nelle sue tre diverse sezioni, oltre ai 6 restauri) ma anche (e soprattutto) quanto a spazio e attenzione di pubblico e addetti ai lavori. Una selezione che, da parte nostra, avremmo voluto seguire con più attenzione e continuità: da qui discende la considerazione che già facemmo in apertura di festival, ovvero quella sull’opportunità o meno di inserire ciò che è ormai, a tutti gli effetti, una manifestazione distinta e concorrente, nello stesso periodo dell’evento principale; una scelta che costringe, di fatto, stampa e pubblico a scegliere tra i due (o a seguire poco e male entrambi). Un punto problematico, quest’ultimo – uno dei tanti, tra i più macroscopici – di un evento che si avvia a chiudere il suo quarto lustro di vita, ben lungi dall’aver superato le sue contraddizioni.

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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