WOLFKIN

WOLFKIN

Horror sospeso tra approccio autoriale e impeto viscerale, Wolfkin rilegge con stile un topos come quello del lupo mannaro, innestandolo su un preciso substrato sociale e contemporaneo atto a riflettere su famiglia, affetti e ruoli sociali. Il film di Jacques Molitor rischia di scontentare tanto gli appassionati di un’interpretazione più grafica e ferina del cinema dell’orrore, quanto quelli di una sua lettura più astratta; tuttavia, fascino e suggestioni non mancano.

La stagione della bestia

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Tra i topoi più classici del cinema horror, quello della licantropia è senz’altro tra i più antichi e trattati nella storia del genere, ma anche tra quelli che, negli ultimi anni, sono rimasti un po’, per varie ragioni, in secondo piano. Hanno influito, probabilmente, le contaminazioni col fantasy di molta letteratura e serialità televisiva (viene in mente l’incorporazione della figura del licantropo nella saga di Harry Potter, ma anche in quella di Twilight – che pur partendo dal vampirismo ne ha fatto un elemento collaterale del suo sviluppo); contaminazioni che hanno reinterpretato la figura del lupo mannaro – meno capace di “resistere”, nel suo potenziale essenzialmente orrorifico, rispetto a quella più lugubre del vampiro – in chiave meno minacciosa, se non addirittura – ribaltandone il senso – eroica o positiva. Prova invece a tornare alle radici del genere, pur senza dimenticarne le recenti evoluzioni, questo interessante Wolfkin, film di produzione franco/belga/lussemburghese che ha già goduto dei lusinghieri giudizi della critica nei vari festival specializzati in cui è stato presentato (tra questi il Sitges e il BIFFF di Bruxelles); una sorta di ritorno alle origini che tuttavia il regista Jacques Molitor abbina a un preciso sottotesto sociale e familiare, legato a temi come l’abbandono, il rapporto madre/figlio e il ruolo femminile nella società contemporanea.

Fuga verso le origini

Wolfkin, una sequenza del film
Wolfkin, una sequenza del film

Parte in effetti come una sorta di dramma familiare, Wolfkin; al centro della trama c’è la madre single Elaine, che cerca di conciliare come può un lavoro precario e poco soddisfacente con la crescita di suo figlio Martin. La donna si trova a dover fronteggiare una crescente serie di segnalazioni scolastiche relative alla condotta del ragazzino, che parlano di atteggiamenti aggressivi e addirittura violenti verso i suoi compagni di scuola. La situazione precipita quando Martin aggredisce un suo coetaneo, mordendolo e facendolo finire in ospedale; disperata, Elaine decide così di recarsi col figlio nella villa isolata dei nonni paterni di Martin, ricchi viticoltori che finora sono stati all’oscuro della stessa esistenza del bambino. Il padre di Martin, infatti, scomparve senza lasciare traccia poco prima della nascita del figlio, abbandonando senza spiegazioni sia Elaine che la sua famiglia di origine; giunta nella lussuosa residenza, tuttavia, la donna inizia a sospettare che il comportamento di Martin sia in realtà legato a qualcosa di atavico e innato all’interno della famiglia. Qualcosa che forse, durante la crescita del bambino, sta premendo con violenza per fuoriuscire definitivamente.

Scoperte innominabili e necessarie

Wolfkin, un'agghiacciante scena del film
Wolfkin, un’agghiacciante scena del film

Horror d’autore che da un lato punta a recuperare la naturale visceralità del tema della licantropia, dall’altro la innesta su un substrato sociale che vuole dire molto sulla contemporaneità, Wolfkin si muove con apprezzabile equilibrio su entrambi i fronti, tentando di rileggere criticamente il genere senza tradirne le basi; lo fa, il film di Jacques Molitor, accompagnando lo spettatore in un viaggio che, dall’iper-razionalità (dis)ordinata della metropoli (definita da un personaggio “cacofonica”), muove verso la ruralità atavica dei boschi che circondano la residenza della famiglia, terreno di caccia ancora incontaminato per umani e non. Un viaggio che diviene scoperta di se e delle proprie radici tanto per il piccolo Martin – protagonista di un atipico coming of age, che del romanzo di formazione segue di fatto tutte le tappe – quanto per sua madre, che per la prima volta si trova a svelare l’enigma di quell’abbandono risalente a tanti anni fa, e delle sue cause. Non ha fretta, Molitor, di far dispiegare il potenziale orrorifico del soggetto, evocato solo in alcuni brevi scorci onirici (che riprendono il flashback iniziale, di sapore vagamente biblico) e “promesso” nelle incontrollate esplosioni umorali e ferine di Martin.

Tra due fuochi, ma con stile

Wolfkin, un'inquietante sequenza del film
Wolfkin, un’inquietante sequenza del film

Nutrito delle suggestioni dell’art horror e del folk horror più recenti (viene in mente, nel coté visivo, il parimenti affascinante, ma più esplicitamente sociologico, Men), Wolfkin non lesina comunque – specie nella sua seconda parte – in graficità e cattiveria di genere, ponendo il peso dell’orrore – spesso mescolato al grottesco – sulla ricca famiglia di viticoltori più che sul piccolo protagonista. In questo senso, Molitor tiene dritta la barra di un approccio al genere che vuole essere innanzitutto sociale, problematizzando il rapporto natura/cultura suggerito sin dai primi minuti, e mostrandone i possibili approcci e le possibili degenerazioni. Degenerazioni tutte interne al contesto (alto) borghese della famiglia dei nonni del ragazzino, all’oppressione che lentamente stringe come una morsa – in una metafora che, in un paio di sequenze, si fa decisamente esplicita – madre e figlio, a un tentativo vano di contenere una natura ferina che semplicemente non può essere imbrigliata.

Tra momenti quasi melò e altri esplicitamente disturbanti (tra cui una cerimonia di iniziazione pseudo-religiosa che resta impressa), Wolfkin rischia forse di scontentare sia gli amanti del genere più crudo e viscerale, sia quelli che prediligono al contrario una sua rilettura più astratta e autoriale; preso tra i due fuochi, e consapevole del rischio, il film di Jacques Molitor ha forse il limite di un minutaggio che sceglie di restare nell’ora e mezza scarsa di durata, che da un lato dona compattezza alla storia, dall’altro forse sacrifica il potenziale di alcuni personaggi (la domestica della famiglia, la figura – invero un po’ monodimensionale e superflua – dello zio del ragazzino). Comunque, la classe e il fascino non mancano, e la distribuzione di un titolo come questo, in questo scorcio di estate che attende la nuova infornata di blockbuster settembrini, è sicuramente un fatto positivo.

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Locandina

Wolfkin, la locandina italiana del film

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Scheda

Titolo originale: Kommunioun
Regia: Jacques Molitor
Paese/anno: Belgio, Lussemburgo / 2022
Durata: 90’
Genere: Horror, Drammatico, Fantastico
Cast: Basile Catrysse, Benjamin Ramon, Blaise Ludik, Charles Muller, Clod Thommes, Gintare Parulyte, Hakim Bouacha, Jean-Jacques Rausin, Joël Delsaut, Jules Werner, Leo Folschette, Louise Manteau, Marc Wolff, Marco Lorenzini, Marja-Leena Junker, Mehdi Zekhnini, Myriam Muller, Tracy Dossou, Victor Dieu, Yulia Chernyshkova
Sceneggiatura: Jacques Molitor, Régine Abadia, Magali Negroni
Fotografia: Amandine Klee
Montaggio: Damien Keyeux
Musiche: Daniel Offermann
Produttore: Gilles Chanial, Olivier Dubois
Casa di Produzione: Les Films Fauves, Novak Production
Distribuzione: Satine Film

Data di uscita: 24/08/2023

Trailer

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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