LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT

Dopo i consensi ottenuti al Festival del Film di Roma, Lo chiamavano Jeeg Robot approda infine in sala: un esordio, quello di Gabriele Mainetti, che ha il pregio di mescolare il registro fumettistico e di genere con quello realistico, in un insieme sorprendentemente fresco e coinvolgente.

Bassifondi e (super)eroismo

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Enzo Ceccotti è un piccolo delinquente di borgata, che sopravvive tra furti, espedienti e azioni di piccolo spaccio. Durante un inseguimento con la polizia, il giovane precipita nel Tevere, venendo a contatto con una sostanza radioattiva. Alla sua emersione, Enzo scopre di aver ottenuto una forza e una resistenza sovrumane: senza domandarsi l’origine dei suoi nuovi poteri, Enzo li accoglie come una benedizione per la sua carriera di delinquente. Durante un “lavoro” per un boss locale, tuttavia, Enzo incontra casualmente Alessia: la ragazza, stramba e disturbata, crede di vedere in lui la personificazione di Hiroshi, protagonista del cartone animato Jeeg Robot. A nulla valgono i tentativi di Enzo di liberarsi della presenza di Alessia, che l’ha ormai eletto a suo eroe: nel frattempo, qualcosa nel lavoro va storto, e i criminali si mettono sulle tracce del giovane.

Nell’ambito dell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, questo Lo chiamavano Jeeg Robot è stato senz’altro la vera rivelazione. Esordio, nella regia di un lungometraggio, di un autore già messosi in evidenza con corti e colonne sonore, il film di Gabriele Mainetti ha riempito le sale dell’Auditorium in tre affollatissime proiezioni, strappando consensi e trasformandosi nel giro di poco in un piccolo “caso” cinematografico. Ora, a distanza di quattro mesi dalla sua presentazione nella kermesse romana, questo curioso esempio di film supereroistico all’italiana approda infine in sala, con la distribuzione della Lucky Red.

Balza subito all’occhio, del film di Mainetti, la distanza dall’altro tentativo di trattare il genere dei supereroi nel nostro cinema, il recente Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores: laddove (pur con humour) Salvatores ricalcava i modelli d’oltreoceano, quello di Mainetti è invece un film perfettamente calato nella nostra società e nel nostro cinema. Di più: in Lo chiamavano Jeeg Robot si respira quel senso di romanità – quello che negli ultimi decenni è stato progressivamente contaminato da degrado, violenza e razzismo – che più di una volta abbiamo visto rappresentato al cinema in altri e diversi contesti.

La periferia di Tor Bella Monaca è oggetto nel film di una fotografia realistica, quasi di taglio naturalista: qui, si innesta una vicenda noir che compie frequenti digressioni nel grottesco, per emergere infine in una versione tutta nostrana (e originale) della nascita di un supereroe. Un insieme di registri, equilibrato e capace di mantenere una credibilità di fondo alla sua base, che ha valso al film di Mainetti la simpatia e il sostegno degli spettatori che lo hanno già visto. Nonostante lo spunto iniziale de Lo chiamavano Jeeg Robot rischiasse infatti di dar vita a un’opera esile e autoreferenziale, la sceneggiatura gestisce al meglio l’alternanza tra i registri che caratterizzano la storia, calcando il pedale del grottesco solo quando necessario, e non facendo mai mancare la credibilità.

C’è vigore e ritmo, ma anche una sorta di stralunata, originale dolcezza, nella vicenda di Enzo e della sua progressiva presa di coscienza, nonché nella singolare love story col personaggio di Alessia. La rappresentazione realistica della realtà di Tor Bella Monaca, nonché la descrizione di un futuro ipotetico (ma non molto lontano) in cui una nuova “strategia della tensione” ha gettato il paese nel caos, fanno da perfetto teatro per quella che si prefigura come una vera e propria via italiana al genere. Va segnalata, inoltre, la pregevole prova di un Claudio Santamaria ingrassato e incattivito nel ruolo del protagonista, ma soprattutto quella di un incredibile e istrionico Luca Marinelli (l’abbiamo visto anche in Non essere cattivo): questi, con il suo Zingaro, finisce spesso – malgrado la buona prova di Santamaria – per rubare la scena allo stesso protagonista.

Lo chiamavano Jeeg Robot ha la pecca di durare forse troppo (118 minuti) per il tipo di storia che racconta, nonché per il modo in cui sceglie di metterla in scena. Nel dipanarsi della sua trama, il film di Mainetti non è privo di lungaggini, di passaggi narrativi a vuoto, di incongruenze che, pur rese meno pesanti dal ritmo rutilante del film e dalla freschezza che emerge dalla sua fattura, fanno comunque capolino qua e là nello script. Sbavature, in ogni caso, non tali da pregiudicare l’efficacia del film di Gabriele Mainetti, né il coinvolgimento – istintivo, “ruspante” e per questo tanto più vero – che inevitabilmente provoca.

Lo chiamavano Jeeg Robot poster

Scheda

Titolo originale: Lo chiamavano Jeeg Robot
Regia: Gabriele Mainetti
Paese/anno: Italia / 2015
Durata: 118’
Genere: Drammatico, Fantascienza, Thriller
Cast: Luca Marinelli, Claudio Santamaria, Antonia Truppo, Stefano Ambrogi, Ilenia Pastorelli, Salvatore Esposito, Daniele Trombetti, Gianluca Di Gennaro, Francesco Formichetti, Giampaolo Crescenzio, Joel Sy, Juana Jimenez, Maurizio Tesei, Tommaso Di Carlo
Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti
Fotografia: Michele D’Attanasio
Montaggio: Andrea Maguolo
Musiche: Michele Braga, Gabriele Mainetti
Produttore: Gabriele Mainetti
Casa di Produzione: Goon Films, Sorgente SGR Spa, Sky Cinema, Rai Cinema, Banca Popolare di Bari
Distribuzione: Lucky Red

Data di uscita: 25/02/2016

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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