CASEY AFFLECK PRESENTA A ROMA LIGHT OF MY LIFE

CASEY AFFLECK PRESENTA A ROMA LIGHT OF MY LIFE

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Dopo l’anteprima nazionale, quale film di chiusura della sezione Alice nella Città nell’ambito della Festa del Cinema di Roma 2019, Casey Affleck ha presentato alla stampa il film da lui diretto e interpretato, affiancato dalla giovanissima co-protagonista Anna Pniowsky.

È un progetto assolutamente personale, quello di Light of My Life, il cui carattere quasi intimo, di racconto, se non autobiografico, comunque fortemente legato al vissuto del regista Casey Affleck, viene fuori in modo evidente già durante la sua visione. Un progetto che recupera la dimensione del racconto verbale – e per esteso quella del dialogo cinematografico tout court – in un genere, qual è quello della fantascienza (qui nella sua declinazione post-apocalittica) tradizionalmente più legato alle immagini. Proprio il carattere così sentito e personale del film di Affleck è venuto fuori con chiarezza ancora maggiore durante la conferenza stampa con cui il regista ha presentato il film a Roma, circa una settimana dopo la sua anteprima all’interno di Alice nella Città (sezione autonoma della Festa del Cinema di Roma), in previsione dell’uscita il 21 novembre. Con lui, la giovane co-protagonista Anna Pniowsky, che nel film è figlia ed elemento di speranza per un genere umano decimato, nella sua componente femminile, da un letale virus.

Affleck, il film viene introdotto da una storia, una sorta di racconto della buonanotte che il suo personaggio narra a sua figlia. Come mai questa scelta insolita?
Casey Affleck: Quello che mi interessava era capire ciò che è oggi la società, le sue preferenze. Nella storia che racconto ad Anna, che è una rivisitazione di quella dell’Arca di Noè, alcune coppie di animali vengono lasciate fuori dall’arCasey Affleck: tutto si è sviluppato da lì. Partendo da questa stessa storia, che raccontavo ai miei figli, volevo capire perché alcune specie potrebbero essere minacciate di estinzione.

Anna, come sei diventata Rag?
Anna Pniowsky: Non è stato difficile: mi sono tagliata i capelli, e ho messo un po’ di me stessa nel personaggio. Niente di complicato.

Il film racconta un mondo in cui la presenza delle donne è a rischio. Che mondo sarebbe senza la componente femminile? Una giungla di tutti contro tutti?
Casey Affleck: Sarebbe un luogo orribile, ed è proprio questo il motivo per cui ho scelto questo tipo di storia, ambientata in un mondo sull’orlo della distruzione. La sua parte apocalittica è profondamente connessa al racconto e ai personaggi; se avessi fatto una storia post-apocalittica con un gruppetto di zombie, magari ne sarebbe venuto fuori un film divertente, ma il motivo sarebbe stato privo di connessione coi personaggi. Qui c’è un padre che cerca di crescere la figlia in un mondo diventato pericoloso. Tutti noi genitori tendiamo a pensare che il mondo sia pericoloso per i nostri figli, così cerchiamo di proteggerli, o al massimo di prepararli a proteggersi da soli. Ho voluto creare questa patologia che aveva effetti letali nei confronti delle donne, così che lui avrebbe sentito in modo ancora più forte questa minaccia.

Quando lei ha iniziato a scrivere la storia, era già padre? Com’è cambiato eventualmente il suo atteggiamento, dopo?
Un figlio lo avevo già, quando ho iniziato a scrivere la sceneggiatura, aveva 4 anni. Infatti il film nasce proprio dalla storia della buonanotte che gli raccontavo; poi la storia si è sviluppata. Certo, a film finito avevo invece due figli, uno di 12 anni e uno di 8, e ovviamente la situazione era diversa. La cosa interessante è che il padre a volte parla alla figlia come se fosse una bambina piccola, altre volte invece le si rivolge come a una figlia un po’ più cresciuta. Lei in effetti è in un momento di passaggio, in quella delicata fase di transizione tra l’infanzia e l’inizio dell’adolescenza.

Anna, com’è stato esordire direttamente con un ruolo da protagonista?
Anna Pniowsky: Non so come esprimere tutta la mia gratitudine per aver ottenuto questo ruolo: è stata la miglior esperienza di tutta la mia vita. È un modo fantastico per iniziare la mia… non vorrei dire carriera, ma sì, lo dico. Carriera. Mi rendo conto che è esattamente questo che voglio fare “da grande”. Amo recitare: può sembrare lezioso dirlo, ma è esattamente questa la mia passione.
Casey Affleck: Attraverso video registrati, avevo visto centinaia di ragazze, e lei si è subito stagliata su tutto il resto del gruppo: aveva una qualità impossibile da insegnare, quella che ti porta chiederti a cosa stia pensando mentre è lì, davanti alla macchina da presa. Quando recita non sta solo recitando, ma riesce a raggiungere il giusto equilibrio tra vulnerabilità e indipendenza; sul set prendeva indicazioni, ma al contempo era autonoma. Non è come quegli attori giovani che magari hanno un appeal solo temporaneo: lei avrà una lunga carriera.

L’atmosfera distopica è in realtà un pretesto per parlare dei veri temi che ci sono dietro al film?
Casey Affleck: Beh, la suspence qui non proviene tanto dalle minacce terribili che i protagonisti devono affrontare, ma piuttosto da quell’inevitabile perdita di innocenza che arriverà alla fine del film. È una cosa che si coglie già da quella bolla che è la tenda, con cui si apre il film, che simboleggia quel rapporto padre-figlia da cui lei ogni tanto tenta di mettere il naso fuori; dovrà uscirne, prima o poi, è pericoloso ma sa che succederà.

Nel passaggio dalla sua prima regia a questa, dal tema completamente diverso, la voglia di esorcizzare le sue paure paterne è stato l’unico elemento, o c’è dell’altro?
Le racconto un aneddoto. Nel 2002 feci il film Gerry, in cui c’erano due persone che camminavano nel deserto, e in cui uno dei due perde la speranza e chiede all’altro di ucciderlo. Il regista era Gus Van Sant: eravamo a girare nel mezzo del nulla, in Argentina, la sera ci sedevamo vicino al fuoco e io gli chiedevo: ma di che si tratta? Quali sono i temi? Lui rispondeva: lasciamo che i temi emergano da soli. Per me però era frustrante. Io pensavo che sapere di che cosa trattasse la storia avrebbe potuto aiutarci; ma lui diceva che dovevamo limitarci a raccontarla, e vedere cosa succedeva strada facendo. Quando ho iniziato questo film, ho scritto molte cose che mi immaginavo, basate su cose che mi ricordavo dal rapporto coi miei figli. A quel punto mi sono ricordato le parole di Van Sant, e allora ho continuato a buttare giù i miei ricordi: cose che mi erano successe, cose che nel rapporto coi miei figli ci eravamo detti, altre che non ci eravamo detti ma che avrei invece preferito fossero state dette, ecc. Ho lasciato che i temi del film venissero fuori da soli. Il film parla di imparare a lasciare andare, e mentre lo scrivevo non me ne rendevo conto. Ma ci son anche altri temi come la violenza, le armi, cose che per me erano importanti, anche se magari nel film non lo sembrano.

Anna, il film ha fatto da chiusura ad Alice nella Città, una manifestazione rivolta a un pubblico di giovani adulti. Quali sono gli elementi del percorso di Rag, in un certo senso “giovane adulta” lei stessa, con cui ti sei sintonizzata di più?
Anna Pniowsky: Innanzitutto il principale messaggio del film, che è davvero quello di lasciare andare: è una cosa che a volte davvero si prova, quando uno magari esercita su stesso determinate pressioni, e deve imparare a metterle da parte. Ho imparato poi quanto sia importante la famiglia, che è un altro tema del film, quanto sia importante che chi ti ama sia lì, a fianco a te. Questo è mostrato nel film molto bene, quanto lui ami Rag, al punto che lei è proprio “la luce della sua vita”.

Affleck, la fantascienza legata a un futuro post-apocalittico è un pezzo importante del cinema americano. Quali opere di fantascienza, viste come spettatore, l’hanno ispirata?
Casey Affleck: Ci sono film del genere che ho amato, come le varie versioni di Io sono leggenda, che mostrano un futuro con l’umanità sul punto dell’estinzione: sono storie in cui vengono via tutti gli orpelli e le sovrastrutture, e resta l’essenza degli esseri umani. Non so perché ci sia questa tendenza: credo che ci sia una sotterranea tensione, un senso di imminente destino tragico rispetto al nostro paese, che in questo periodo è più che giustificato. Resta il fatto che il film l’abbiamo iniziato nel 2015, comunque, quindi forse è stata la realtà a copiarci.

Il film ha qualcosa in comune col romanzo The Road, di Cormac McCarthy, e con la sua trasposizione cinematografica. Si muove su un percorso parallelo, ma allo stesso tempo diverso. Qual è il suo rapporto con quel libro?
Il suo libro è il mio preferito. Anni fa stavo facendo Lui, lei e gli altri, un film di Lisa Kruger, ed eravamo a El Paso; lui era conosciuto ma non così tanto, e allora io gli mandai una lettera invitandolo sul set. Un giorno stavamo girando nel deserto, eravamo da soli, e in lontananza vedo arrivare due persone; io temevo fosse qualcuno che ci diceva che stavamo facendo cose che non dovevano, invece era Cormac con sua moglie, che ci venivano a trovare. Abbiamo pranzato insieme, e lui mi ha parlato del libro che stava per scrivere, che era proprio The Road. L’ho amato tantissimo, e d’altra parte ho dovuto evitare di mette nel film tante cose, proprio per evitare di copiare le sue. Ci sono sempre tante cose che devi evitare, in un film, per riuscire a essere originale; e poi d’altronde di originale, in generale, c’è ben poco. Tutto è già stato raccontato. Ma per il film ho tratto ispirazione anche da Witness – Il testimone di Peter Weir, un altro film che ho amato molto; le mie fonti di ispirazione sono state tante, sia di fantascienza che non.

Molte scene sono state girate in condizioni climatiche proibitive. Com’è che ciò ha influenzato la realizzazione del film?
Anna Pniowsky: Beh, il clima rigido ce lo siamo andati a cercare, e poi era esattamente quello che io volevo. Mi piace quel tipo di paesaggio. Io mi vantavo sempre con Casey del fatto che venivo dal Canada: ma non da un posto qualsiasi, ma da Winnipeg, dove fa davvero tanto freddo.

Affleck, cosa ha cambiato la vittoria dell’Oscar nella sua vita?
Casey Affleck: Non molto, o almeno non in modo sostanziale. È un bel riconoscimento, certo, specie per un film come Manchester By The Sea, che ho fatto con tantissimo amore: quel film non l’ho fatto per conquistare un Oscar, ma semplicemente per fare un film con un amico. È bello che abbia potuto trovare riconoscimento.

Fare il regista ha cambiato la sua voglia di stare davanti alla macchina da presa?
Il fatto di essere dietro la macchina da presa mi spinge a fare ancora più film. Mi piace moltissimo fare entrambe le cose: come attore sei nella storia di altri, e a me piace essere al servizio di storie altrui. Però mi piace anche raccontare un ambiente mio, visto che le storie che racconto sono cose che io lascerò, ai miei figli e agli altri.

Considera questo film una metafora del mondo attuale? È in qualche modo un film “femminista”?
Presumo di sì, anche se io non sono uno scrittore abbastanza bravo da mettermi a scrivere volendo comunicare un particolare messaggio. Io ho scritto questo film tirando fuori cose che sono uscite da me in modo organico, cose personali. Come detto, ho lasciato che i temi emergessero da sé, non mi sono messo lì con l’idea di fare una metafora. Forse è il film un’“espressione impressionista” delle cose che per me hanno valore. Comunque poi le si etichetti, per me va bene. Ho sempre avuto la sensazione di non essere al centro, nella mia vita, mi sono sempre sentito ai margini; qui sono anche riuscito a relazionarmi con questa idea in cui tu non sei il prescelto, in cui fai parte degli animali che non vengono fatti salire sull’arca. Ho voluto che Anna fosse al centro della storia; ciò ha anche a che fare con le giovani generazioni: loro insistono, vogliono dei grandi cambiamenti, e non è che chiedano l’autorizzazione. Non sono persone passive, così come non lo è la volpe Goldie nella storia. Questo è un buon messaggio da far arrivare, a giovani e non. Se poi fosse definito anche un film femminista ne sarei contento, certo renderebbe mia madre orgogliosa! Lei infatti non ci faceva vedere certi programmi di moda negli ‘80 perché li riteneva sessisti.

Crede che a Hollywood sia cambiato qualcosa col movimento MeToo?
Credo che sia cambiato tutto, o forse che stia cambiando. E credo che cambi per il meglio, ma non solo a Hollywood; credo che quello che è successo influenzi tutti gli aspetti della cultura e della società, ma anche quelle di altri paesi, con un effetto moltiplicatore.

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Giornalista pubblicista e critico cinematografico. Collaboro, o ho collaborato, con varie testate web e cartacee, tra cui (in ordine di tempo) L'Acchiappafilm, Movieplayer.it e Quinlan.it. Dal 2018 sono consulente per le rassegne psico-educative "Stelle Diverse" e "Aspie Saturday Film", organizzate dal centro di Roma CuoreMenteLab. Nel 2019 ho fondato il sito Asbury Movies, di cui sono editore e direttore responsabile.

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